Pubblichiamo un’intervista condotta dalla Direttrice del CSDC, Luisa Del Turco, a Shadia Marhaban, attivista, giornalista e mediatrice di pace di Aceh in Indonesia.
Traduzione e revisione di Matteo Landricina.
LDT: Da molto tempo ti dedichi alla diffusione del punto di vista di genere nei processi di pace. Come sei arrivata ad appassionarti a questa problematica? Dove hai trovato l’ispirazione e la motivazione?
SM: Io provengo da una cultura molto particolare, maschilista e matriarcale allo stesso tempo. Aceh è stato il primo regno islamico del Sud-Est Asiatico, e ciononostante fu governato da regine per oltre tre decenni. Il ruolo delle donne è stato cruciale anche durante l’epoca coloniale. Nel XIX secolo, Aceh ebbe il suo primo ammiraglio navale donna, che guidò centinaia di navi in battaglia contro i portoghesi nello Stretto di Malacca. Lo spirito guerriero e lo spirito materno sono entrambi fortemente radicati nella mia cultura. Mio padre mi ha insegnato a credere nella mia propria forza, e a tenere in considerazione il tempo, perché l’atteggiamento che abbiamo nei confronti del tempo riflette il valore che attribuiamo al capitale della vita.
Ho vissuto in zone di conflitto fin dalla mia infanzia, una circostanza che deve avere contributo molto a farmi diventare ciò che sono diventata, una persona che vuole fare tutto ciò che è in suo potere per contribuire a ristabilire la pace in ogni parte del mondo. Sono stata coinvolta in conflitti armati in praticamente qualsiasi veste, da giornalista, da attivista per i diritti umani, e anche da protagonista attiva di una lotta indipendentista.
LDT: In passato, hai svolto il ruolo sia della negoziatrice che della mediatrice. Che differenze hai trovato nei due ruoli? Pensi che l’intervento di una parte terza sia essenziale?
Il mio lavoro nell’ambito del consolidamento della pace è iniziato nel 2005, quando sono stata invitata ai negoziati di pace a Helsinki che hanno posto fine al brutale conflitto tra il governo della Repubblica di Indonesia e il Movimento per l’Aceh Libero (GAM). È lì che ho realizzato quanto siano complessi i conflitti, e quanto sia difficile trovare un punto di incontro tra le parti. Ma ho anche imparato che c’è sempre una via che si può percorrere.
A livello pratico, ho capito che la cosa più importante per essere un buon mediatore è essere imparziale. Si deve perseguire attivamente ogni occasione di trovare un punto di incontro tra le parti in conflitto, senza che esse debbano per forza abbandonare quelle che considerano le proprie ragioni. Bisogna rispettare le narrazioni culturali e storiche di tutte le parti, anche se queste narrazioni sono contrarie alla realtà dei fatti, poiché la maggior parte dei conflitti nascono da interpretazioni divergenti dei fatti.
Io comunque mi considero un’attivista di pace più che una mediatrice, una che si immerge totalmente nella causa che persegue, e investe il suo tempo a parlare a nome di altri. Per me è fondamentale comprendere la narrazione del conflitto e della pace, che è peculiare di ogni comunità. L’unicità di ciascun individuo, sia che faccia parte del gruppo dei ribelli che dei governativi o della comunità internazionale, è una grande risorsa per la pace.
Credo che per fare la pace sia necessario creare una condizione in cui ciascuna comunità sente di poter controllare la pace, e in cui le narrazioni legate al conflitto di ognuna vengono rispettate. La pace deve penetrare il cuore e la mente delle persone. La dignità va posta al centro del processo di ricostruzione della società.
LDT: C’è secondo te un valore aggiunto dato dal fatto di essere donna ai fini del lavoro di pace?
SM: Ogni volta che inizio un lavoro di consolidamento della pace in una data comunità, parto proprio dalle donne e dalle giovani, perché le considero la chiave del cambiamento sociale. Subito dopo la ratifica dell’accordo di pace di Helsinki sono ritornata ad Aceh dagli Stati Uniti, dove mi ero rifugiata, e ho contribuito a fondare la Lega delle Donne di Aceh (LINA), per sostenere la reintegrazione a livello politico ed economico delle ex-combattenti. Allo stesso tempo sono entrata a far parte del consiglio direttivo della Scuola di Aceh per la Pace e la Democrazia (SPD), che si dedica alla formazione di ex-combattenti, soprattutto uomini ma anche donne, su temi come la democrazia, la formazione dei partiti, il diritto di voto, i sistemi elettorali, la raccolta fondi, l’arte della retorica e via dicendo, per preparare il loro reinserimento nella società.
L’esperienza ci insegna che le donne hanno un ruolo molto importante nel consolidamento della pace, purtroppo la maggior parte di loro non ne sono consapevoli, perché vengono sempre trattate non come una parte, persino maggioritaria, della popolazione, ma come vittime bisognose di aiuto, il che oscura il loro ruolo proattivo. Il mondo dei negoziati di pace è ancora un dominio incontrastato degli uomini, quando in realtà sia gli uomini che le donne sono coinvolti nel conflitto, entrambi sono sia vittime che carnefici.
LDT: Ci avviciniamo al sedicesimo anniversario della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1325. Come giudichi i suoi risultati?
SM: L’esperienza che ho fatto con la UNSCR 1325 (“Donne Pace e Sicurezza”) è che la vera difficoltà comincia in fase di implementazione. Lo sforzo fatto in questi 16 anni di campagna è stato enorme, sono stati fatti grandi passi in avanti, tuttavia ci sono ancora problemi per quanto riguarda l’attuazione della risoluzione, legati in particolare ai fondi che i governi mettono a disposizione per il proprio Piano di Azione Nazionale. La sfida è quella di spingere per una maggiore partecipazione delle donne nei negoziati di pace, affrontando allo stesso tempo il discorso dei finanziamenti e cercando di influenzare la comunità dei donatori.
Il programma viene visto ancora come un’iniziativa per donne promosso da donne o da UN Women, raramente come una vera questione politica legata alla sicurezza. Nel caso della Colombia, dove ho avuto l’occazione di fare degli interventi prima che si arrivasse all’accordo di pace, molte delle combattenti delle FARC hanno espresso la loro volontà di collaborare non tanto con una organizzazione di donne e basta, ma piuttosto con un insieme di diverse organizzazioni della società civile. Io penso che dobbiamo andare oltre la 1325 e creare una struttura agile, che lavori sulla base della condizioni specifiche di ciascun conflitto, piuttosto che seguire un modello standard prodotto dall’ONU.