In occasione della Giornata internazionale della donna, che il Quirinale ha voluto celebrare con un’iniziativa dedicata alle “Donne per la pace”, pubblichiamo un intervento sul tema da parte della Direttrice del CSDC, Luisa Del Turco.
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Le pratiche di pace sperimentate a livello individuale e collettivo dalle donne in varie epoche e aree geografiche, colpiscono per la loro straordinaria rispondenza a tecniche e strumenti indicati dai maggiori esperti di conflict resolution come strumenti utili per la trasformazione costruttiva dei conflitti (cfr. J. Galtung, 1996).
Empatia, ascolto, capacità di introspezione, di attesa e di accoglienza, concretezza e creatività hanno permesso alle donne di gestire i conflitti in modo particolarmente efficace, in grado di agire, oltre che sulle posizioni e sui comportamenti, anche sulle cause profonde e strutturali e sulle attitudini e percezioni delle parti coinvolte, elementi costitutivi della struttura del conflitto.
Questo “patrimonio comune di genere”, sperimentato dapprima a livello familiare e interpersonale, poi esteso al piano comunitario/gruppale, si è infine trasposto e sviluppato alla fine del secolo scorso su scala globale attraverso iniziative promosse della società civile (Donne in Nero, Convenzione permanente di donne contro la guerra, la campagna Women Building Peace per citarne solo alcune).
Esperienze fino ad allora confinate ai margini della storia ufficiale hanno acquisito sempre maggiori visibilità e riconoscimento, inducendo la comunità internazionale ad assumere l’impegno di garantire per il futuro la partecipazione delle donne nei processi decisionali a tutti i livelli per le questioni riguardanti la pace.
Nel nuovo millennio l’approccio di genere nella gestione dei conflitti diviene così un richiamo esplicito e frequente nei documenti e nelle linee programmatiche di governi e organizzazioni internazionali (ONU, UE, NATO, OSCE) .
Sul piano concreto tuttavia ancora oggi la percentuale di donne nei negoziati di pace non raggiunge il 10%, mentre non sembra che le loro pratiche di pace siano riuscire ad informare significativamente la prassi internazionale nella gestione dei conflitti.
Dati che inducono a riflettere: quali barriere ostacolano la partecipazione delle donne dalle sedi decisionali nelle aree di conflitto? Quali strategie adottare per la diffusione delle loro pratiche di pace?
Un primo aspetto da considerare è il crescente numero di donne combattenti in eserciti regolari e non, dal Vietnam al Salvador, ai più recenti i casi delle guerrigliere maoiste in Nepal alle peshmerga curde. In alcuni casi sono state donne ad essere imputate di atti di efferata violenza, ai danni di altre donne come accaduto in Ruanda, di torture come nelle prigioni di Abu Ghraib, mentre donne figurano oggi anche nel numero degli attentatori suicidi.
Il potere d’influenza e il ruolo attivo che le donne possono esercitare in situazioni di conflitto – va dunque ribadito – non è necessariamente speso o spendibile solo in favore della pace. Ne è prova il fatto che ne hanno sollecitato l’impiego sia Gandhi che la propaganda di guerra, ovviamente con opposte finalità.
Un patrimonio comune di pratiche di pace appartiene dunque alla storia delle donne, ma non necessariamente a ciascuna di loro né al loro genere in via esclusiva.
Da qui la prima delle sfide che attendono le donne in questa fase: impegnarsi nel preservare e difendere l’identità e l’integrità di questo patrimonio, preservandone il carattere non violento e la valenza trasformativa, anche e soprattutto nella fase di accesso e partecipazione alle sedi decisionali. L’altra sfida è rappresentata dalla capacità di condividere le pratiche facendo fronte comune con individui e gruppi che promuovono un approccio olistico e lavorano per una pace positiva e sostenibile tra i popoli (approccio utile anche nel contrasto alla volenza di genere, come nell’esperienza della campagna white ribbon e le numerose iniziative che ne sono seguite).
Va inoltre considerato il contesto nell’ambito del quale la presenza delle donne va a collocarsi, e la sua evoluzione.
La dimensione di genere ma nella gestione dei conflitti è stata oggetto di particolare attenzione da parte della comunità internazionale già alla fine della guerra fredda.
Sono gli anni in cui le maggiori organizzazioni internazionali sono impegnate nella messa a punto di strumenti quali il mantenimento e la costruzione della pace, la difesa dei diritti umani e la democratizzazione, con un approccio olistico e ad una visione di lungo termine. Il clima di grande fiducia diffuso alla fine del confronto bipolare, trova infatti eco nel richiamo esplicito alla nonviolenza contenuto nel Piano d’azione di Pechino (1995).
Ma nel nuovo millennio, dall’adozione del Namibia Plan of Action alla Risoluzione 1325/2000 del Consiglio di Sicurezza, il mainstreaming di genere nel settore pace e sicurezza ha significato principalmente coinvolgimento attivo delle donne in missioni internazionali, nell’ambito di interventi che spesso re-interpretano in senso molto restrittivo i principi stabiliti in origine (imparzialità, consenso e uso della forza limitato all’autodifesa), secondo un modello di peacekeeping “robusto”.
Nei nuovi scenari di crisi le forze internazionali si giovano della presenza delle donne, utile risorsa per rispondere alla violenza di genere (che include oggi stupri come arma di guerra e gravidanze forzate), per la costruzione della fiducia con le popolazioni locali, per favorire il rispetto dei codici di condotta e prevenire sfruttamento ed abusi, che coinvolgono talora anche gli operatori internazionali.
Ma i risultati incerti delle strategie di stabilizzazione e il conseguente permanere di un clima di forte instabilità e insicurezza, rischiano di rendere vani gli sforzi di favorire la partecipazione delle donne alla vita politica e più in generale alla stessa vita pubblica, finendo per mettere piuttosto a rischio l’incolumità – oltre che delle donne locali – anche delle operatrici internazionali (si vedano i rapporti ONU su Afghanistan e Iraq). L’incombere della minaccia terroristica con la sua forte connotazione di genere (come in Siria e Nigeria) rischia di rafforzare oggi l’ottica securitaria, finendo per limitare ulteriormente la libertà delle donne e portando nuovamente in secondo piano la necessità di garantire la loro partecipazione attiva alla gestione delle dinamiche di conflitto.
Mentre forte si conferma l’impegno – in termini numerici e organizzativi – in ambito Forze Armate e di Polizia (con la prima generale a comando di una missione ONU nel 2014), progressi decisamente più limitati si registrano nell’impiego di personale civile e di donne nelle missioni internazionali, e decisamente ancora molto ardua rimane la sfida di un reale effettivo coinvolgimento delle donne locali nei processi di pace (Siria, Colombia).
Si discutono oggi ipotesi di riforma dei sistemi di intervento in aree di conflitto in sede internazionale, ma quando si parla di donne e processi di pace ci si limita ancora spesso al sostegno alla loro presenza in un sistema di intervento staticamente incardinato sui tre assi tradizionali di intervento militare – assistenza umanitaria – sviluppo post-conflitto.
Spesso celebrate in documenti e premi, le pratiche di pace sperimentate delle donne in aree di conflitto non sono state ancora pienamente tradotte in azione concreta ad altri livelli, lasciando in larga parte inespresso il loro potere trasformativo.
Per superare l’approccio “add women and stir”, e utilizzare appieno il potenziale di trasformazione che la loro presenza delle donne può apportare, non basta oltrepassare il soffitto di cristallo per accedere alle più alte sedi decisionali: è necessario ricondurre l’attenzione sulle pratiche dal basso, sulla condivisione delle esperienze nate dalla vita quotidiana nelle aree di conflitto, spesso dalla dimensione della cura, nella quale le donne hanno lungamente e fecondamente agito e riflettuto e che oggi sono pronte a condividere.
L’inclusione della pace tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs), il riconoscimento al ruolo degli attori della società civile nel settore protection e la valorizzazione del contributo delle donne al peacebuilding nei processi di revisione delle Nazioni Unite 2015 (rispettivamente nel peacekeeping e su donne pace e sicurezza), aprono oggi uno spazio concreto per rilanciare il dibattito su questo tema.
Per quanto riguarda in particolare l’Italia, alcune novità a livello normativo offrirebbero persino l’occasione di esercitare un ruolo di leadership per lo sviluppo di nuovi strumenti e approcci.
Tra queste: la nuova disciplina della cooperazione internazionale che affianca all’obiettivo della pace allo sviluppo, la legge sulla partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali che include riferimento esplicito ai corpi civili di pace (di cui è in atto la sperimentazione) e il nuovo promettente Piano d’Azione Nazionale Donne Pace e Sicurezza (2016-19) che riconosce il ruolo delle donne come agenti di cambiamento.
Con quali modalità e strumenti preservare l’integrità e promuovere la condivisione del prezioso bagaglio di esperienze di tante donne impegnate ieri e oggi per la pace nelle aree più sofferenti del pianeta? E come condurlo nei luoghi e nelle sedi dalle quali le donne sono state così a lungo escluse? Queste le questioni su cui continuare a riflettere e confrontarsi, non solo tra donne, a tutti i livelli.