di Matteo E. Landricina, Ph.D. – 20.08.2016
(*Elaborato presentato a conclusione del corso “Dal Peacekeeping al Peacebuilding: gestire i conflitti per costruire la pace”presso la Scuola di Aggiornamento e Alta Formazione “Giuseppe Arcaroli”, Roma.)
Nella prima metà del 2016, ancora una volta, l’Africa subsahariana è tornata far parlare di sé come regione delle crisi umanitarie e dei conflitti. L’imperversare dei movimenti islamisti in Nigeria e nel Sahel, gli allarmi lanciati da varie fonti su un rischio di genocidio in Burundi, la cronica instabilità nella Repubblica Democratica del Congo, contribuiscono a consolidare nell’immaginario pubblico l’idea, presente fin dagli anni ’80, dell’Africa come “grande malato” tra i continenti del mondo, mettendo a repentaglio gli sforzi fatti da governi come quello italiano guidato da Matteo Renzi di promuovere le relazioni economiche e politiche tra l’Europa e l’Africa, e di rappresentare quest’ultima come un interessante mercato in crescita, oltre che un partner indispensabile per la gestione dei flussi migratori.[2]
Agli esempi di focolai di crisi di cui sopra si è aggiunto recentemente un conflitto che presenta alcune caratteristiche meritevoli di essere analizzate, sia perché da un lato peculiari, sia perché per molti versi “tipiche” delle guerre dell’Africa dalla fine dell’epoca post-coloniale in poi: il conflitto civile (o meglio, i conflitti civili) nel neonato stato del Sud Sudan. Senza pretesa di volere operare in questa sede un’analisi esaustiva, cercheremo tuttavia di esaminare alcuni aspetti del conflitto stesso e di come esso viene percepito dai mass media occidentali, per poi soffermarci sulle strategie di gestione e risoluzione dei conflitti messe in atto finora dalla comunità internazionale, sia africana che extra-africana.
I “fatti” fondamentali riguardanti i conflitti nel Sudan meridionale sono noti.[3] Nato nel 2011 dalla secessione della parte meridionale del Sudan, dopo un conflitto tra forze del governo di Khartoum e forze ribelli durato quasi quattro decenni (in due fasi distinte, 1955-1972 e 1983-2005), il Sud Sudan non ha mai conosciuto pace e stabilità. Dopo la ratifica dell’accordo di pace del 2005, che ha sancito di fatto la transizione verso l’indipendenza, a partire dal 2008 sono esplosi di nuovo conflitti con l’esercito del Sudan nelle regioni di confine di Abyei, Kordofan Meridionale e Blue Nile, soprattutto per il controllo dei giacimenti di petrolio che rappresentano la principale risorsa finanziaria del paese.
I contrasti con il vicino del Nord per il petrolio si erano appena sopiti (i negoziati sul tracciato esatto del confine non sono però ancora conclusi), quando alla fine del 2013 sono sorti contrasti interni tra due fazioni (armate) del partito al potere nel Sud, il Movimento di Liberazione del Popolo del Sudan (in inglese, SPLA), l’una guidata dal presidente Salva Kiir, l’altra dal vicepresidente Riek Machar. Ne è nato un conflitto violento, che ha via via preso le pieghe di uno scontro etnico, visto che il presidente e i suoi seguaci sono in maggioranza di etnia dinka, mentre il gruppo facente capo a Machar è di etnia nuer. Si teme quindi che la popolazione civile, già colpita pesantemente dalle conseguenze del conflitto (si parla di due milioni e mezzo di sfollati e profughi), possa divenire sempre più oggetto di rappresaglie da parte di milizie che, come purtroppo spesso accade, non distinguono tra truppe combattenti e civili disarmati.[4]
Con la svolta etnica che sembra avere preso il conflitto armato tra le due fazioni politico-militari dello SPLA la situazione in Sud Sudan è rientrata, dal punto di vista del racconto mediatico, nell’alveo, inquietante ma tutto sommato più “confortevole” per i media, dell’etnicismo. Inizialmente, quando nei mesi dopo l’indipendenza le milizie del neonato Sud Sudan si scontravano con l’esercito di Khartoum a causa delle dispute sulla linea di demarcazione del confine tra i due stati, non c’era altro modo di analizzare la problematica che dal punto di vista economico: i due paesi, rivali storici, si contendevano il controllo dei giacimenti di petrolio situati a cavallo della frontiera. L’interpretazione economicista dei conflitti africani tuttavia risulta sgradevole alle orecchie dell’opinione pubblica dei paesi industrializzati. Sapere che in paesi poverissimi, che sono stati in epoca moderna colonizzati dalle potenze imperialiste europee, le popolazioni civili soffrono a causa di scontri per il controllo di materie prime che vanno poi ad alimentare le economie dei paesi ricchi, può creare problemi di coscienza e sollevare critiche al modello vigente delle relazioni internazionali e dell’economia globale. È molto più “rassicurante” pensare alle guerre africane come a qualcosa dovuto ad odi innati, atavici, “etnici” per l’appunto, cioè legati ad ostilità tribali e di sangue che affondano le proprie radici in un passato pre-storico da cui l’Africa, continente dell’arretratezza per antonomasia, non si è a quanto pare mai liberato. Ragionare in questi termini libera i paesi industrializzati, ad Occidente ma anche ad Oriente, dalle proprie responsabilità.[5]
Se si guarda alla situazione africana un po’ più da vicino, si scopre invece che l’etnicismo apparentemente alla base di tanti conflitti e massacri è tanto una “invenzione” di certe élites manipolatrici locali, quanto lo è il nazionalismo su base etnica in Europa (pensiamo ad esempio ai Balcani). Come ci ricorda l’africanista Stefano Bellucci, “le crisi africane sorgono sempre da squilibri economici che si trasformano in risentimento politico o sociale, ma si trasformano in guerra civile quando la politica (l’ideale di società) o l’identità (l’etnia o la religione) diventano strumenti impiegati da certe élites per fini impropri ed egoistici, ovvero che non riguardano la sfera del sociale o quella culturale a cui la politica e l’identità appartengono”.[6]
Con ciò non si vuole affermare che l’odio che si scatena tra gruppi etnici, che magari hanno vissuto insieme per decenni o addirittura per secoli, non sia reale. La storia europea ci insegna che è relativamente facile per i dirigenti di un paese in difficoltà economica o politica istigare le masse ad odiare minoranze (o maggioranze) identificate per appartenenza etnico-razziale, culturale o sociale. È necessario però ricordare che l’etnicismo è principalmente uno strumento manipolativo in contesti di povertà diffusa e grandi disuguaglianze, oltre ad essere una chiave di lettura “facile” per i mass media internazionali, perché relegando i conflitti in questione nella sfera dell’irrazionale pre-moderno, libera le opinioni pubbliche dal compito sgradevole di riflettere sulle cause più profonde di tali dispute.[7]
Una delle domande che ci si dovrebbe porre, e che riguarda in particolar modo il caso del Sud Sudan, è quella sulle modalità in cui gli stati oggetto di conflitti sono venuti a formarsi. I giornalisti occidentali riportano senza battere ciglio il fatto che il Sud Sudan è nato da una guerra di secessione, che ha portato il vecchio Sudan a dividersi in due stati. Non si fa mai menzione, per ignoranza e forse per abitudine alla situazione europea, del fatto (e questa è probabilmente la peculiarità principale del conflitto sudsudanese) che le secessioni in Africa rappresentano un’eccezione assoluta. Il principio dell’intangibilità delle frontiere ereditate dal colonialismo (“uti possidetis”) sancito dalla Carta dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) nel 1963 e confermato nel 1964 dai capi di stato e di governo africani al Cairo, è stato finora uno dei capisaldi delle relazioni internazionali a livello del continente. L’unica eccezione che si è verificata è stata quella dell’Eritrea, resasi indipendente dall’Etiopia nel 1993 dopo una lunga guerriglia, ma l’Eritrea era stata comunque già un possedimento autonomo ai tempi del colonialismo italiano, quindi si può dire che in questo caso in realtà sono state ristabilite le frontiere coloniali precedenti.[8]
Che cosa ha fatto sì che nel caso del Sudan il principio dell’intangibilità delle frontiere coloniali sia stato violato in maniera così aperta, per la prima volta dal 1960 ad oggi? Per cercare di rispondere compiutamente a questa domanda bisognerebbe approfondire la storia del Sudan e dei conflitti che hanno interessato questo paese vastissimo in una maniera che non è possibile fare in questa sede. È tuttavia possibile affermare, rigirando la domanda, che se nei sei decenni seguiti alla grande ondata decolonizzatrice dei primi anni ’60 il secessionismo non è riuscito ad affermarsi in Africa, pur constatando l’evidente “artificialità” delle frontiere tracciate arbitrariamente dagli europei, uno dei motivi è stato che la comunità internazionale, Est e Ovest, è rimasta compatta nel difendere la statualità africana, perlomeno dal punto di vista dell’integrità territoriale. I tentativi secessionisti più tenaci nella storia dell’Africa post-coloniale sono stati quello del Katanga e del Kasai del Sud, durante la Crisi del Congo (1960-1965), e quello del Biafra, la regione sud-orientale della Nigeria che tentò di staccarsi dal governo centrale, provocando l’omonima guerra (1967-1970). Si trattava in entrambi i casi di regioni periferiche di paesi di grande estensione territoriale, ricche di materie prime a tal punto da suscitare tendenze indipendentiste nelle élites regionali. Le grandi potenze, pur con qualche tentennamento nel caso del Katanga, si schierarono compatte a fianco dei governi centrali, e le ribellioni furono infine sconfitte sul piano militare e politico.[9]
Se guardiamo invece al caso del Sudan, è cosa nota che gli Stati Uniti siano stati per ragioni politiche tra i principali sostenitori del SPLA, il fronte armato dei secessionisti del Sud Sudan.[10] Il regime islamista di Khartoum, che per alcuni anni aveva anche ospitato sul suo territorio Osama Bin Laden, era finito infatti fin dal 1993 sulla lista del governo statunitense dei paesi “sponsor del terrorismo”, e lo è a tutt’oggi, assieme alla Siria e all’Iran.[11] Washington ha supportato dagli anni ’90 in poi una coalizione di stati filo-occidentali a maggioranza cristiana ostili al Sudan, quali Uganda, Kenya ed Etiopia, per contrastare l’influenza di Khartoum.[12] Con la deflagrazione del conflitto nella regione occidentale sudanese del Darfur, collegato a sua volta al conflitto nel Sudan meridionale, anche i mass media e alcune organizzazioni non-governative statunitensi hanno concentrato la loro attenzione su ciò che stava accadendo in Sudan, provocando una grande partecipazione emotiva nell’opinione pubblica statunitense e occidentale.[13]
L’appoggio ugandese e americano allo SPLA e agli altri movimenti di opposizione sudanesi è stato decisivo per il loro successo politico-militare. È quindi lecito affermare che in quanto stato il Sud Sudan, considerato oggi “nato morto” da alcuni osservatori internazionali,[14] è in buona misura figlio dell’ingerenza degli Stati Uniti negli affari africani, i quali nel nome di interessi politici (lotta al radicalismo islamista), geostrategici (contrasto dell’influenza della Cina, principale acquirente del petrolio del Sudan) e della politica di interventismo umanitario ha sacrificato il consolidato principio della non-modificabilità delle frontiere africane, creando un precedente pericoloso per la stabilità politica del continente.[15]
Un’altra particolarità dei due Sudan è la posizione geografica. Il Sudan pre-secessione si trovava esattamente a cavallo tra il Nordafrica, arabo e musulmano, e l’Africa sub-sahariana, nera e a maggioranza cristiana. Gli abitanti neri africani delle regioni meridionali si sono pertanto ritrovati fin dall’indipendenza nel 1956 assoggettati ad un governo dominato dalla componente araba (il paese è membro della Lega Araba), e a partire dagli anni ’80 anche sottoposti alla Legge Coranica, uno dei motivi alla base della rivolta del Sud. Si potrebbe pensare che con l’indipendenza e il venire meno del predominio arabo-musulmano, la situazione politica sia oggi più facilmente gestibile. Così non è, visto che il regime di Giuba, capitale del Sud, dominato da un movimento armato che non ha mai tentato di divenire un vero partito politico, è ora pericolosamente esposto alle influenze dei paesi limitrofi meridionali, alcuni dei quali essi stessi in gravi condizioni politico-economiche, come la Repubblica Centrafricana o la Repubblica Democratica del Congo, mentre altri vicini come l’Uganda aspirano ad un ruolo di predominio regionale e sono ansiosi di incassare i dividendi dell’appoggio dato ai secessionisti durante la lotta per l’indipendenza.[16]
Che fare, dunque, per evitare che l’esperimento di state-building del Sud Sudan muoia ancora prima di essere veramente nato, creando un’ulteriore area di instabilità in una regione già scossa da gravi conflitti e drammatiche crisi umanitarie? Gli sforzi diplomatici per mettere fine alle ostilità sono stati affidati finora all’Unione Africana ma soprattutto all’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo (in inglese, IGAD), l’organizzazione sub-regionale di cooperazione politico-economica di cui fanno parte Gibuti, Etiopia, Eritrea, Somalia, Kenya, Uganda, Sudan e Sud Sudan. Il “pensatoio” International Crisis Group sottolinea come i governi degli stati confinanti del Sud Sudan, in particolare i due rivali storici Khartoum e Kampala, avrebbero teoricamente tutto l’interesse a cooperare tra loro per potere poi instaurare relazioni proficue con un Sud Sudan stabile e prospero.[17] In effetti i negoziati promossi dall’IGAD hanno portato all’accordo dell’agosto 2015, in base al quale, tra l’altro, l’Uganda ha accettato di ritirare le truppe che aveva inviato in sostegno al governo di Giuba nel 2013. L’accordo come sappiamo però è saltato con gli scontri tra fazioni armate sudsudanesi del luglio di quest’anno. Il vertice allargato dell’IGAD dei primi di agosto ha condannato l’escalation militare, la quale sta aggravando il peso sui paesi confinanti in termini di profughi, e ha chiesto al governo sudsudanese, in teoria un governo di unità nazionale, di collaborare nel dispiegamento di una Forza di Protezione Regionale, da affiancare alla già presente Missione delle Nazioni Unite nel Sud Sudan (UNMISS).[18] L’IGAD si è inoltre affiancata alla richiesta fatta già dall’ultimo summit dell’Unione Africana, chiedendo al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di rivedere in termini più “robusti” il mandato di UNMISS.[19] Il presidente sudsudanese Kiir si è però opposto, sostenendo che un rafforzamento del contingente ONU trasformerebbe, di fatto, il paese in un “protettorato”.[20]
Questi sviluppi riflettono la tendenza in atto in materia di mantenimento della pace e gestione delle crisi in Africa negli ultimi anni, che vede una sempre maggiore integrazione e compartecipazione di attori a tre diversi livelli sovranazionali: sub-regionale, con organizzazioni come IGAD o la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale; regionale, in particolare l’Unione Africana ma anche l’Unione Europea; e il livello internazionale delle Nazioni Unite. Tutti questi organismi sovranazionali hanno inviato proprie missioni di mantenimento della pace in zone di crisi, come durante la recente crisi del Mali o quella nella Repubblica Centrafricana. Si tratta di una cooperazione verticale a geometria variabile che costituisce sicuramente una risorsa per la gestione dei conflitti nell’ambito dell’Architettura di Pace e Sicurezza per l’Africa (APSA) dell’Unione Africana, ma che presenta anche molte sfide in termini di integrazione dei mandati, delle responsabilità operative e della gestione tecnica e logistica delle crisi.[21]
In ogni caso, come fanno notare analisti africani, il proliferare di meccanismi sovranazionali di consolidamento della pace non deve far dimenticare che il pilastro di relazioni internazionali sane resta comunque un corretto funzionamento dell’ordinamento statale nazionale.[22] Le missioni multilaterali di pace devono essere intese come un sostegno alla stabilizzazione di statualità fragili, non come un surrogato permanente alla costruzione di nazioni in grado di camminare con le proprie gambe.[23] Molto dipenderà anche dall’atteggiamento che le grandi potenze decideranno di tenere nei confronti degli stati più fragili, in particolare in Africa ma anche nel Medio Oriente. Fin a quando i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza manterranno nei confronti dei paesi in via di sviluppo un atteggiamento dettato da logiche politico-economiche autoreferenziali e contingenti, ritenendo di poter fare e disfare nazioni e governi stranieri a proprio piacimento senza pensare alle conseguenze a medio-lungo termine delle proprie azioni, dovremo inevitabilmente continuare a confrontarci con conflitti, instabilità e crisi umanitarie.
Riferimenti bibliografici
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[2] Il Sole 24 Ore, “Renzi in Nigeria: distruggeremo terroristi, Africa è priorità per combattere povertà”, 01.02.2016, http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-02-01/renzi-africa-prima-tappa-nigeria-agenda-accordi-commerciali-e-lotta-terrorismo-103326.shtml?uuid=ACcSMCLC&refresh_ce=1.
[3] Si veda p.e. la pagina dedicata del CIA World Factbook, https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/od.html, ovvero BBC NEWS, “South Sudan – Timeline”, http://www.bbc.com/news/world-africa-14019202.
[4] The Guardian, “More than 300 dead as South Sudan capital is rocked by violence”, 11.07.2016, https://www.theguardian.com/world/2016/jul/10/south-sudan-capital-juba-violence-salva-kiir.
[5] Cfr. E. Braathen, M. Bøås e G. Sæther, “Ethnicity Kills? Social Struggles for Power, Resources and Identities in the Neo-Patrimonial State”, in “Ethnicity Kills? The Politics of War, Peace and Ethnicity in SubSaharan Africa”, E. Braathen (Ed.), Palgrave 2000, pp. 3-22.
[6] S. Bellucci, “Storia delle guerre africane. Dalla fine del colonialismo al neoliberismo globale”, Carocci 2006, pp. 63-64.
[7] Ibid., pp. 109-112.
[8] Secondo Bellucci, “il colonialismo è servito al nazionalismo eritreo per maturare le sue rivendicazioni territoriali,” Ibid., p. 91. Sulla questione delle frontiere africane in generale si veda M. Foucher, “Frontières d’Afrique, frontières africaines” in Diplomatie Hors-série N° 15, Affaires Strategieques ed Relations Internationales, Dec. 2014 – Jan. 2015., 16-19.
[9] Bellucci,ibid., pp. 42-48.
[10] Bellucci, ibid., p. 117.
[11] http://www.state.gov/j/ct/list/c14151.htm
[12] Sulle recenti strategie militari degli Stati Uniti in Africa, in cui l’Uganda gioca un ruolo significativo, vedi Turse, “Washington’s back-to-the-future military policies in Africa. America’s new model for expeditionary warfare”, Le Monde Diplomatique, 13 marzo 2014, http://mondediplo.com/openpage/washington-s-back-to-the-future-military-policies.
[13] Notevole, in particolare, l’iniziativa Save Darfur Coalition, a cui aderirono star come George Clooney e l’allora candidato alla Casa Bianca Barack Obama, vedi http://savedarfur.org/about/history/. Cfr. D. Lanz, “Save Darfur: A Movement and Its Discontents”, African Affairs, Vol. 108, No. 433 (Oct., 2009), pp. 669-677, http://www.jstor.org/stable/40388427.
[14] “Sudan du Sud: un État mort-né?” in Diplomatie Hors-série N° 15, Affaires Strategieques ed Relations Internationales, Dec. 2014 – Jan. 2015., 70-71.
[15] Gli Stati Uniti si comportano con il governo di Giuba come “un padrino ultra-indulgente”, G. Prunier, “South Sudan: it all began so well”, Le Monde Diplomatique, febbraio 2014, http://mondediplo.com/2014/02/03southsudan. Vedi anche K. Funk, S. Fake, “Scramble for Africa: Darfur-intervention and the USA”, Black Rose Books 2009. Per una pregnante critica della politica di interventismo cosiddetto umanitario, vedi p.e. Walden Bello, “Humanitarian Intervention: Evolution of a Dangerous Doctrine” [http://focusweb.org/node/814].
[16] International Crisis Group (ICG), “South Sudan’s South: Conflict in the Equatorias”, Africa Report N°236, 25 maggio 2016, https://www.crisisgroup.org/africa/horn-africa/south-sudan/south-sudan-s-south-conflict-equatorias.
[17] ICG, “From Conflict to Cooperation? Sudan, South Sudan and Uganda”, 20.06.2016, https://www.crisisgroup.org/africa/horn-africa/south-sudan/conflict-cooperation-sudan-south-sudan-and-uganda.
[18] IGAD, Communique Of The Second Igad Plus Extraordinary Summit On The Situation In The Republic Of South Sudan, 05.08.2016, igad.org.
[19] http://au.int/en/pressreleases/31218/summary-27th-au-summit-decisions-tax-imports-finance-au-establish-protocol-issue.
[20] Le Monde, “Soudan du Sud : le gouvernement opposé au projet de renfort de la force de l’ONU”, 10.08.2016, http://www.lemonde.fr/afrique/article/2016/08/10/soudan-du-sud-le-gouvernement-oppose-au-projet-de-renfort-de-la-force-de-l-onu_4980982_3212.html.
[21] Vedi N. Ansorg e F. Haaß, “Multilaterale Friedenssicherung in Afrika“, German Institute of Global and Area Studies (GIGA), Focus 6/2013, www.giga-hamburg.de/giga-focus.
[22] D. Bangoura, “Les solutions africaines aux crises”, in Diplomatie Hors-série N° 15, Affaires Strategieques ed Relations Internationales, Dec. 2014 – Jan. 2015, 34-40.
[23] Gli esperti ci ricordano che il Sud Sudan dipenderà ancora per molti anni dagli aiuti internazionali, allo stesso tempo mettono in guardia dallo sviluppo di meccanismi di dipendenza dall’assistenza internazionale, v. C. Koos, “Südsudan: Vom Traum in die Realität”, GIGA Focus 7/2011, www.giga-hamburg.de/giga-focus.